È la narrazione autobiografica della detenzione subita dall’autrice nel carcere romano di Rebibbia. Spinta a rubare gioielli in casa di amiche, per far fronte a difficoltà economiche, la protagonista è arrestata e condannata all’inizio degli anni ’80. Le si apre così un mondo parallelo, nel quale si immedesima poco alla volta e che si manifesta ricco di un’umanità variegata e dotato di una impensabile vitalità. L’iniziale impatto con regole e privazioni di ogni tipo sono descritte con crudezza anche lessicale, dalla perquisizione corporale all’impossibilità di lavarsi, dalla fatiscenza della cella all’inflessibilità delle guardiane, ma tutte si rivolgono a lei con l’appellativo di “signora”, con il rispetto per una donna che percepiscono come altolocata. Con sua grande sorpresa, inoltre, Goliarda scopre che le celle, durante il giorno, restano aperte e di fatto le detenute vivono in comunità, una comunità che può ben definirsi “Università Rebibbia”. Familiarizza così con le compagne di cella, la tossica Marrò e la rude Annunciazione, insinuandosi nelle loro debolezze e fragilità, ma conosce anche le detenute “politiche”, capaci di sorprendenti abbellimenti negli spazi comuni, al punto che il loro soggiorno sembra avere ben poco della cupezza che solitamente si associa alla condizione detentiva. Un affresco dal vivo della situazione carceraria del tempo, ancorché limitato alla detenzione al femminile, notoriamente meno dura della maschile, per qualità del trattamento e quantità delle recluse, ma tratteggiato con rara abilità e capace di indurre il lettore alla rivalutazione di un mondo dannato per definizione. Goliarda scopre anche cosa vuol dire solidarietà, calore, amicizia, spontaneità, impossibili nel mondo di fuori dove si è meno liberi e sicuri. Intellettuale libera e anticonformista, Goliarda Sapienza ci offre, con sguardo lucido e penetrante, uno spaccato sorprendente che rovescia tutti i nostri stereotipi su una realtà sconosciuta e per questo tanto piú rivelatrice.